Il suono delle parole

Lo so, lo sapete, l’ho già detto nell’ultimo post, ma voglio ripeterlo pure questa volta. Sono innamorata delle parole, ma di brutto. Non so quando è cominciata, non me lo ricordo. Però so che da quando ho iniziato a leggere davvero mi sono sempre incantata davanti a certe combinazioni di sillabe e suoni, a volte andando al di là di quello che volevano dire, erano belle e basta, non so se mi spiego.

(Inciso. Cosa vuol dire “leggere davvero”. Esattamente non lo so, ma ho la sensazione che i primi anni di lettura, per quanto assidua, siano stati un avvicinamento, non ancora lettura vera. E non è questione di quanto si sa, di quanto si è letto fino a quel momento, ma di come ci si mette davanti a una storia, magari capendoci ancora di meno, ma stupendosi di più. Scusate se ho fatto casino, ma proprio non so spiegarlo meglio).

Comunque. A me le parole piacciono. No, non tutte, perché sarebbe come dire che a un appassionato di cinema piacciono tutti i film. E infatti alcune proprio non le sopporto. Qualche esempio?

Delizioso. Questa forse sta al primo posto tra le parole che mi stanno antipatiche. È molle, ha la faccia da schizzinosa, di quelle che hanno perennemente il naso un po’ arricciato.

Delicato. Questa mi sembra una di quelle che non prende mai una posizione. Ti piace? È delicato. Ma ti piace o no? È delicato. Ma va là, va.

Attimino. Che esagerazione, è già piccolo un attimo, cosa ci vuoi fare con un attimino? (E questa antipatia l’ho ereditata dal mio prof. di Italiano delle superiori, quindi sì, anche le antipatie si possono sviluppare per contatto e contagio, non sempre ma a volte succede).

Potrei impegnarmi e passare in rassegna altre parole che mi irritano ma sinceramente preferisco pensare a quelle belle. Con un altro piccolo intermezzo, però, su una parola che mi sembra stranissima e con la quale ancora ho dei problemi perché a volte mi sembra che non esista: cucchiaio. A voi sembra una parola normale? Con tutte quelle vocali una vicina all’altra, che quando la dici la tua mandibola deve fare dei giri assurdi e il risultato non è mai un granché. Cucchiaio. Mah.

Poi ci sono le altre, quelle di cui mi innamoro. E pensando a queste ho capito una cosa: che se non mi piacciono parole singole, quello che mi piace proprio da impazzire sono le combinazioni di parole: è difficile che mi colpiscano parole singole, mentre quando si incastrano una dietro l’altra sì, anche se magari dentro non c’è niente di spettacolare, nomi aggettivi virgole in una successione apparentemente banale che però quando li leggi è una magia. Ecco, quando le trovo, queste magie, mi stupisco di come si possa prendere gli elementi più semplici e di come basti metterli insieme nel modo giusto per tirarci fuori qualcosa di proprio bello, di talmente bello che devi proprio leggerlo ad alta voce, come questo qui:

Lolita, luce della mia vita, fuoco dei miei lombi. Mio peccato, anima mia. Lo-li-ta: la punta della lingua compie un percorso di tre passi sul palato per battere, al terzo, contro i denti. Lo. Li. Ta.

(Vladimir Nabokov, Lolita)

lolita

Capito? È così bello che quasi ci rimango secca. Anzi, forse questo è l’inizio di libro più bello che finora ho incontrato (e anche il libro intero è bello carico di meraviglia).

Poi ci sono bellezze meno evidenti, che si incastrano nelle altre frasi con leggerezza, rischiando pure di rimanere nascoste e così, quando le scopri, sorridi. Io, almeno, sorrido.

 “Quale cosa?” chiesi silenziosamente al muro, ma il muro non me lo spiegò.

(Jeffrey Eugenides, Middlesex).

Cose così, insomma, che diventano bolle che luccicano dentro la storia.

Chiudo con un’ultima citazione, presa da un libro che è tutto una bolla che luccica.

“Io e mia nonna, la sera in cui mi fermavo da lei, gridavamo delle parole dalla veranda. Questo me lo ricordo. Gridavamo le parole più lunghe che ci venivano in mente. Io gridavo: Fantasmagoria!” Poi ha riso. “Quella me la ricordo. E dopo lei gridava una parola yiddish che non capivo. E dopo io gridavo: Antidiluviano!” Lui ha gridato la parola in strada, e questo poteva essere di imbarazzo se non che in strada non c’era nessuno. “E dopo guardavo le sue vene del collo che si gonfiavano mentre gridava qualche parola straniera. Secondo me eravamo segretamente innamorati delle parole”.
(Jonathan Safran Foer, Ogni cosa è illuminata)

Non so voi, ma io sono già un po’ più felice.

Ode alla punteggiatura

(Sottotitolo: Con un pensiero alle maiuscole e alle “d” eufoniche)

Avvertenza. Questo post contiene esplicite dichiarazioni d’amore al suono delle parole, alle virgole e anche ai congiuntivi. Astenersi deboli di grammatica.

Sono innamorata delle parole – ma pesantemente. Ecco, l’ho detto, e pure subito, così almeno potete inquadrare questo post, che nasce forse da lontano, dalla bellezza di leggere scritture che hanno un certo spessore di meraviglia, ma che poi è sbucato come una necessità improvvisa, come una di quelle illuminazioni definitive che ti arrivano mentre sei al mercato a comprare i carciofi. Per dire. Leggendo, correggendo, modificando virgole altrui, a un certo punto ho capito che dovevo proprio farla questa dichiarazione d’amore alla magia dell’incastro tra parole e segni.

grammatica1Che poi oltre a una dichiarazione d’amore è anche un po’ una protesta, perché la grammatica sta diventando un furetto piedi-neri, una bestiolina che se non stiamo attenti si estingue e buonanotte ai sognatori. (E tutti a fare gli occhi dolci al panda e a ingozzarlo di bambù, lui che fa pure lo schizzinoso col cibo e con le fidanzate, mentre il povero furetto piedi-neri se non vai su wikipedia non sai neanche che si sta estinguendo. Scusate, ho avuto un moto di simpatia furettiana).

Ma torniamo alla sostanza. La punteggiatura è bella. Punto. Potrei quasi fermarmi qui che avrei già detto non tutto ma tanto, anche se in una sintesi un po’ estrema. Il fatto è che quando la vedo infilata tra le parole con la stessa attenzione di quando si lanciano i bastoncini a shangai, ecco io sto male (e lo dico serenamente perché tanto so che sono in buona compagnia). Ma sto male davvero, del tipo che mi prudono le mani, inizio a sbuffare, nei casi peggiori inizio a parlare da sola inveendo contro il malfattore che ha provocato quella distribuzione assolutamente casuale di virgole, due punti e punti e virgole. Questi ultimi, poi, proprio dimenticati, infilati nel cassetto dei segni inutili neanche fossero quell’orribile bomboniera a forma di cigno che ti hanno rifilato all’ultimo battesimo. A proposito, studiando per questo post ho trovato una citazione bellissima, che ovviamente condivido qui:

“Avete mai visto un punto e virgola che piange? Un punto e virgola corpo 14 in Times New Roman che si dispera perché non lo usano più? Beh, io l’ho visto stanotte e non è stato un bel vedere”. (Diego Cugia, Zomberos, 2006)

Il dramma della punteggiatura, insomma. Che però è solo una parte dello scrivere, bella densa ma non l’unica. Ci sono cose che mi fanno venire accenni di orticaria, come le “d” eufoniche che forse si pensa siano come il blu, che sta bene con tutto. E invece no. Ed allora. Guardando ad oriente. Ma perché? Perché? O le maiuscole lanciate nelle frasi come le briciole ai piccioni. Vi prego, non abusate di maiuscole che l’occhio poi fa indigestione, o se non altro in nome di un’estetica della frase, che con tutte quelle maiuscole rischia di diventare una specie di strada di montagna – su e giù, su e giù.

grammatica

E poi. Vogliamo parlare dei congiuntivi? Ce la sentiamo? Io sì, perché mi piacciono da matti. Nei tanti casi in cui vengono maltrattati o, molto più spesso, dimenticati, soffro. Mi si stringe il cuore a pensare al povero congiuntivo che era lì pronto per uscire, fare la sua bella figura di verbo importante, lì che si sistema al volo la giacchetta in attesa che lo chiamino e poi niente, la frase finisce, al suo posto hanno messo un imperfetto, magari addirittura un indicativo presente. E il piccolo congiuntivo resta lì, con la sua giacchetta bella stirata e una lacrimuccia che tradisce la sua solitudine. Una volta uno che chiamavano poeta mi ha detto “spero che va bene” provocando un accenno di parolaccia e il suicidio di altri quattro congiuntivi. Mondo crudele.

Ci sarebbe ancora una cosa di cui parlare – il suono delle parole. Uso il condizionale perché su quello ho voglia di dire un bel po’ di cose, quindi me lo tengo per il prossimo post. Un altro post d’amore – forse quello senza protesta, solo bellezza e va bene così.