L’inevitabile metamorfosi

Succedeva ogni volta che leggeva, ma non se ne rendeva conto. Eppure succedeva sempre, a volte di più, a volte di meno, ma sempre. E quello che leggeva c’entrava solo in parte, anche se bisogna ammettere – se vogliamo fare un’analisi seria e precisa del fenomeno – che succedeva di più con le storie che parlavano di pioggia, o nelle quali pioveva almeno un po’, almeno una volta.

pioggia

Leggeva e il suo corpo iniziava una lenta e metodica digestione della storia. Le parole si scioglievano, i suoni si ammorbidivano, le metafore assumevano un’interessante consistenza gelatinosa, fino a quando tutto veniva assorbito. E qui, in questo esatto momento, iniziava l’inevitabile metamorfosi. Il suo corpo si impregnava della storia, ma da dentro. Interi paragrafi diventavano sangue, pagine di paesaggi bucolici si trasformavano in fibre muscolari, finali inaspettati esplodevano in un respiro che senza preavviso si faceva affannoso. Una volta una virgola particolarmente significativa disegnò un neo nell’incavo del braccio sinistro.

Era un processo molto lento, questo bisogna ammetterlo. Potevano volerci ore perché le prime parole del libro, quello che iniziava con “Manolo il Gitano aprì gli occhi”, si allontanassero l’una dall’altra e cominciassero a sciogliersi, perdendo prima qualche vocale, di quelle che scivolano come le i accentate, e poi diventando sempre più chiare, sempre più lontane. Poi sembravano sparire e invece erano le contrazioni di una risata, o quel rossore senza motivo.

A volte pezzi di storia restavano fermi per un po’, come a galleggiare. Sembravano immobilizzarsi come una digestione difficile, ma era solo questione di tempo. Sempre questione di tempo. Anche quando lesse che “Tobias rimase in cortile, a contare le stelle fino all’orizzonte, e scoprì che ce n’erano tre di più dal dicembre scorso” sembrò che quelle parole sarebbero rimaste per sempre incastrate sotto le palpebre, ma passarono cinque mesi due settimane e tre giorni e all’improvviso si sciolsero e gli occhi diventarono un po’ più verdi, sembravano quelli di prima ma solo da lontano.

Anche adesso sta leggendo. Forse domani avrà una piccola voglia dietro l’orecchio. O forse no. Ma qualcosa si starà trasformando. Come sempre.

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Dopo #100happydays

Ok, è arrivato il momento di condividere il punto della situazione (già fatto, pensato, ripensato) sui miei #100happydays, che sono finiti più o meno 10 giorni fa.

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Un piccolo ripasso, per chi si è perso le altre puntate: #100happydays è un gioco, una sfida, un azzardo. Scegli un social network – io ho scelto Instagram – e ogni giorno, per 100 giorni, posti un momento felice. A volte grande, a volte piccolo, a volte così minuscolo che lo vedi solo tu. Ma vero, che barare non vale. Ecco, a me l’idea di questa sfida è piaciuta, e ho iniziato a fotografare, tutti i giorni, qualcosa che mi faceva sorridere, o pensare a un sorriso.

Ora, mi piacerebbe un sacco dire che è stato facile, ma sarebbe abbastanza una bugia. A volte sì, è stato facile, certi giorni però dovevo proprio aguzzare la vista per trovare un momento da fotografare, un paio di volte ho addirittura pensato di smettere. Solo che poi, in quei giorni (due) in cui ho pensato di mollare, alla fine qualcosa è successo. Un’amica mi ha regalato del cioccolato. Ho scoperto che i miei piedi mi sono simpatici. E ho fotografato quel cioccolato di rinforzo, i miei piedi pronti per una camminata, e tra un dolce consolatorio e un paio di scarpe da ginnastica non ho mollato.

Cento giorni. Non sono mica pochi. E se ci penso su un attimo, mi rendo conto che sono stati un bell’allenamento. Perché lo sguardo si allena, come la felicità. Che le schifezze continuano a capitare, le giornatacce a fare lo sgambetto, ma io mi alleno e nello schifo so essere un pochettino più forte, so cercare quel puntino che luccica. Almeno qualche volta. Almeno ci provo. E pacca sulla spalla (pat pat) per il tentativo.

Quindi quindi. Soddisfatta? Di brutto. Riguardo le mie 100 foto e vedo pere che diventano mongolfiere, facce di amici, briciole a forma di cuore, un sacco di libri, un albero con gli occhi, ritagli di parole, un pesce di carta che nuota in un mare improvvisato. Cose piccole, minuscole. Ma innegabilmente belle.

E adesso? Adesso l’allenamento continua. Che mica si può smettere così…

Ps: se volete vedere tutte le foto del mio #100happydays cliccate qui

pesce_100happydays   quadrifoglio_100happydays

Frida

20140608_175739(Due pensieri sgangherati su un sacco di bellezza)

Mi ero preparata a conoscerla. Avevo letto, studiato e immaginato (che anche quello è prepararsi). Poi sono partita anche se avevo l’influenza, con un’amica vicino e una che ci aspettava all’arrivo, e dopo baci abbracci e chiacchiere siamo andate da lei e finalmente me la sono ritrovata davanti.

Roma quel giorno era particolarmente bella. C’era il cielo pulito, blu proprio blu. C’era pure un pochino di vento che spostava le nuvole e faceva ballare le ombre. E poi c’era lei.

C’era lei con i suoi colori, i fiori, le lacrime, la vita, la lotta. C’era la pelona (*), spalmata in ogni pennellata e da quella stessa pennellata sconfitta ancora una volta. C’erano i simboli che raccontavano la sua storia, segni sulla tela e sulla carta, alcuni assomigliavano a un enigma, altri erano così evidenti che a guardarli quasi nasceva un senso di pudore – scusa, sto mettendo il naso nella tua vita, nel tuo dolore, nel tuo amore, è tutto così forte che non riesco a smettere di guardare.

E poi c’erano immagini di lei. Inaspettatamente, perché mi aspettavo i suoi dipinti, al massimo i disegni, ma le foto sono state una sorpresa. Immagini bellissime, racconto in un racconto, una specie di eco che faceva rimbalzare la meraviglia, che prendeva i miei occhi e non li lasciava andare, li portava su quello sguardo, da lì a un fiore dipinto, e poi di nuovo nella grana della fotografia.

Vorrei avere le parole per raccontare come si deve ogni punto di colore a cui sono capitata davanti. Ma non le ho. Forse (forse) le avrò più avanti, per adesso tutto quello che mi è rimasto è un senso di bellezza magnetica. Bellezza e vita, nonostante la sofferenza evidente, bellezza e lotta, bellezza e magia. Tutto questo insieme ad alcuni punti che brillano, punctum li avrebbe chiamati Roland Barthes, quei dettagli a cui gli occhi si aggrappano nonostante il contesto, dimenticando tutto il resto.

Ne ho incontrati alcuni, di questi punti che brillano. Il più intenso è stato uno dei suoi busti, l’armatura di gesso che le fasciava il corpo. Lo guardavo e vedevo la forma di quella carne intrappolata, ma soprattutto vedevo i segni che gli aveva dipinto sopra, segni di resa ma anche – insieme – di resistenza, come a implorare la bellezza di schiacciare il dolore, ritrarre la sofferenza per provare a farla tacere.

E poi i colori. Tutta quella vita che a starci davanti assomigliava a una risata fortissima, a un urlo, a una presa in giro della morte, della paura, della solitudine.

C’era tutto, lì dentro, un tutto così forte che prima di riuscire a raccontarlo ci vorrà un bel po’ e forse non sarà ancora sufficiente. Ma in fondo non fa niente, che mica la bellezza va spiegata.

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(*) Pelona era il nome con cui Frida chiamava la morte, come una vecchia conoscente, sgradita e inevitabile.